UNA NECESSARIA FRATTURA (DI)ROMPENTE
"Penso che
nel caso della mia casa la gente si sia seccata perchè ero ligio. Ho risposto:
"Va bene, voi vivete qui, usate reti metalliche, usate questi chiodi,
usate queste strane finestre". Ho preso una delle loro icone e ne ho fatto
più che un'icona, ho giocato con i loro detriti - e loro pensano che sia
normale - e semplicemente li ho ordinati in forma artistica. Quello che gli ha
dato fastidio è che si sono sentiti obbligati a metterci il naso dentro. Io non
volevo fargli mettere il naso dentro e offenderli. Stavo cercando di trovare il
modo di adattarmi a quel contesto, di usare il linguaggio di quel contesto, di
vivere con quegli elementi borghesi. Quando sono arrivato alla realizzazione,
ho finito col farli infuriare perchè lo leggevano come una presa in giro. Stavo
scherzando a loro spese, e si sono arrabbiati. Quando glielo ho spiegato si sono
calmati, ma erano veramente furiosi. Mi sono reso conto che possediamo davvero
un certo potere, come Warhol con i suoi barattoli di zuppa Campbell. Si può
davvero entrare a smuovere qualcosa, mandando in corto circuito un intero segmento
del mondo. Perchè ciò turba la gente, destabilizza il loro autocompiacimento in
un punto in cui pensavano che tutto andasse bene. Invece arriva questo tizio e
usa queste cose, in un modo che li turba. "Che cosa significa? Come osa
adoperare la rete metallica come una scultura? La rete metallica serve per fare
i recinti!". Ecco ciò che mi interessa, ciò che mi affascina."
Così Frank O.
Gehry parla della sua casa di Santa Monica, opera realizzata nel 1978 a seguito
dell’acquisto di una piccola casa dal radicato gusto borghese, la cui immagine
provoca nella mente dell’architetto sia amore che odio, sia “comprensione” che
repulsione. Gehry non demolisce la costruzione, non la svuota, ma l’avvolge con
un fabbricato a forma di “U” su tre dei quattro lati, mettendo qui in luce il
suo interesse verso la componente materiale della quotidianità, la sua volontà
assemblatoria, il montaggio libero e informale di pezzi trovati, definendo
appieno il nuovo paesaggio del “cheapscape” e realizzando una costruzione
anticonformista, a metà tra un loft industriale e una scenografia: un’anti-casa
decostruita, genuinamente sovversiva nella compiacente decadenza
dell’architettura populista americana. La scatola muraria viene aggredita,
quasi erosa, evadendo le regole, e l’espansione nasce dalla distruzione:
vengono così aperte nuove finestre dove effettivamente servono, per far entrare
la luce laddove ce ne è davvero bisogno, senza rispettare gli stereotipi;
vengono recuperati elementi “trash”, materiali poveri e di recupero, come reti
metalliche usate dai suoi vicini nei pollai, legno compensato e lamiere
ondulate “di risulta”.
La spazialità
della casa viene rinnovata e modificata tramite questo strano modo di intaccare
ed invadere l’esistente. Le finestre sono appena ritagliate nei pannelli di lamiera,
le porte si inseriscono dentro le lastre di compensato, i lucernai sono
composti da legni non trattati che soreggono il vetro in piani non ortogonali
tra loro, l’asfalto della strada si insinua sino al pavimento della cucina. Al
piano terra un nuovo diaframma di entrata sembra estendersi dai gradini
d’accesso caratterizzati da un movimento rotatorio, nel giardino retrostante
l’avvolgente lamiera si tramuta in un portico-galleria e al piano superiore
quest’addizione avvolge il doppio ambiente della camera matrimoniale con
camminamenti e terrazze su cui sbucano prismi irregolari che portano in basso
la luce zenitale. Internamente, al di là della scala che separa la zona notte,
si sviluppa uno spazio centrale che è il soggiorno e dal quale sono percepibili
tutti gli altri ambienti come l’ingresso, la sala da pranzo, la cucina, la zona
colazione, lo studio.
Impossessata
quasi dai fantasmi del cubismo, questa tessitura stratificata di materiali
diversi, poveri e tipici dei backyards americani, cerca una continuità tra
esterno e interno, creando bruschi contatti con elementi obliqui, sghembi,
giustapposti.
La casa di Santa Monica di
Frank O. Ghery gode, anche se in maniera provocatoria, di una sensibilità verso
la pratica del riuso, e ciò si manifesta visivamente attraverso il suo essere
avvolta in un collage fatto di materiali
di scarto e di recupero.
Questo nuovo
linguaggio cerca una partecipazione totale all’intero mondo contemporaneo e si
porta dietro una nuova idea residuale di contesto, un contesto derelitto, che
cerca negli scarti le tracce di una nuova energia e che dona alla sua casa il
fascino dell’incompiuto e sintetizza il desiderio di riscatto della bellezza
dal pregiudizio estetico.
Nei progetti
successivi Gehry porta avanti la sua ricerca resa nota con la sua strampalata
casa a Santa Monica e nella scuola di legge dell’Università di Loyola, a Los
Angeles, disarticola il programma funzionale in edifici distinti,
diversificando le parti e donando loro un valore aggiunto, plastico e figurativo,
non singolare ma collettivo, dato che ciò che conta è lo spazio che essi, colti
nel loro insieme, riescono a creare.
In un opera del 1984, l’Edgemar Complex,
sempre a Santa Monica, incentra le sua attenzione sullo spazio pubblico e
sull’idea di frattura e di separazione che riveleranno spazi inediti,
attribuendo importanza allo spazio cavo che diviene il centro di ogni
composizione urbana, formato e deformato dagli edifici e dai loro elementi a
forte reazione estetica.
Il paesaggio
residuale di Gehry è il grado zero di un nuovo sentire e di una
sperimentazione che prosegue la
creazione di un nuovo immaginario urbano già anticipata dai movimenti
avanguardistici dei primi del Novecento e dalle correnti americane del secondo
dopoguerra.
“Sono per un’arte che cresce senza sapere che è arte,
un’arte che ha l’opportunità di avere lo zero come punto di partenza. …Sono per
un’arte che prenda forma dalle linee della vita stessa, che contorca, estenda e
accumuli e spinga e goccioli, che sia pesante e ruvida e dolce e stupida come
la vita stessa. “
-Claes Oldenburg-
Bibliografia:
-Frampton Kenneth (2008), Storia
dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna
-Saggio Antonino (2010), Architettura e modernità. Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica, Carocci, Roma
-Frank Owen Gehry, Un'architettura di
frontiera, in Domus, n° 745, 1993
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