sabato 20 aprile 2013

Casa Gehry di Frank O. Gehry - Santa Monica, 1978



UNA NECESSARIA FRATTURA (DI)ROMPENTE

"Penso che nel caso della mia casa la gente si sia seccata perchè ero ligio. Ho risposto: "Va bene, voi vivete qui, usate reti metalliche, usate questi chiodi, usate queste strane finestre". Ho preso una delle loro icone e ne ho fatto più che un'icona, ho giocato con i loro detriti - e loro pensano che sia normale - e semplicemente li ho ordinati in forma artistica. Quello che gli ha dato fastidio è che si sono sentiti obbligati a metterci il naso dentro. Io non volevo fargli mettere il naso dentro e offenderli. Stavo cercando di trovare il modo di adattarmi a quel contesto, di usare il linguaggio di quel contesto, di vivere con quegli elementi borghesi. Quando sono arrivato alla realizzazione, ho finito col farli infuriare perchè lo leggevano come una presa in giro. Stavo scherzando a loro spese, e si sono arrabbiati. Quando glielo ho spiegato si sono calmati, ma erano veramente furiosi. Mi sono reso conto che possediamo davvero un certo potere, come Warhol con i suoi barattoli di zuppa Campbell. Si può davvero entrare a smuovere qualcosa, mandando in corto circuito un intero segmento del mondo. Perchè ciò turba la gente, destabilizza il loro autocompiacimento in un punto in cui pensavano che tutto andasse bene. Invece arriva questo tizio e usa queste cose, in un modo che li turba. "Che cosa significa? Come osa adoperare la rete metallica come una scultura? La rete metallica serve per fare i recinti!". Ecco ciò che mi interessa, ciò che mi affascina."

Così Frank O. Gehry parla della sua casa di Santa Monica, opera realizzata nel 1978 a seguito dell’acquisto di una piccola casa dal radicato gusto borghese, la cui immagine provoca nella mente dell’architetto sia amore che odio, sia “comprensione” che repulsione. Gehry non demolisce la costruzione, non la svuota, ma l’avvolge con un fabbricato a forma di “U” su tre dei quattro lati, mettendo qui in luce il suo interesse verso la componente materiale della quotidianità, la sua volontà assemblatoria, il montaggio libero e informale di pezzi trovati, definendo appieno il nuovo paesaggio del “cheapscape” e realizzando una costruzione anticonformista, a metà tra un loft industriale e una scenografia: un’anti-casa decostruita, genuinamente sovversiva nella compiacente decadenza dell’architettura populista americana. La scatola muraria viene aggredita, quasi erosa, evadendo le regole, e l’espansione nasce dalla distruzione: vengono così aperte nuove finestre dove effettivamente servono, per far entrare la luce laddove ce ne è davvero bisogno, senza rispettare gli stereotipi; vengono recuperati elementi “trash”, materiali poveri e di recupero, come reti metalliche usate dai suoi vicini nei pollai, legno compensato e lamiere ondulate “di risulta”.
La spazialità della casa viene rinnovata e modificata tramite questo strano modo di intaccare ed invadere l’esistente. Le finestre sono appena ritagliate nei pannelli di lamiera, le porte si inseriscono dentro le lastre di compensato, i lucernai sono composti da legni non trattati che soreggono il vetro in piani non ortogonali tra loro, l’asfalto della strada si insinua sino al pavimento della cucina. Al piano terra un nuovo diaframma di entrata sembra estendersi dai gradini d’accesso caratterizzati da un movimento rotatorio, nel giardino retrostante l’avvolgente lamiera si tramuta in un portico-galleria e al piano superiore quest’addizione avvolge il doppio ambiente della camera matrimoniale con camminamenti e terrazze su cui sbucano prismi irregolari che portano in basso la luce zenitale. Internamente, al di là della scala che separa la zona notte, si sviluppa uno spazio centrale che è il soggiorno e dal quale sono percepibili tutti gli altri ambienti come l’ingresso, la sala da pranzo, la cucina, la zona colazione, lo studio.
Impossessata quasi dai fantasmi del cubismo, questa tessitura stratificata di materiali diversi, poveri e tipici dei backyards americani, cerca una continuità tra esterno e interno, creando bruschi contatti con elementi obliqui, sghembi, giustapposti.
La casa di Santa Monica di Frank O. Ghery gode, anche se in maniera provocatoria, di una sensibilità verso la pratica del riuso, e ciò si manifesta visivamente attraverso il suo essere avvolta in un collage fatto di  materiali di scarto e di recupero.


Questo nuovo linguaggio cerca una partecipazione totale all’intero mondo contemporaneo e si porta dietro una nuova idea residuale di contesto, un contesto derelitto, che cerca negli scarti le tracce di una nuova energia e che dona alla sua casa il fascino dell’incompiuto e sintetizza il desiderio di riscatto della bellezza dal pregiudizio estetico.
Nei progetti successivi Gehry porta avanti la sua ricerca resa nota con la sua strampalata casa a Santa Monica e nella scuola di legge dell’Università di Loyola, a Los Angeles, disarticola il programma funzionale in edifici distinti, diversificando le parti e donando loro un valore aggiunto, plastico e figurativo, non singolare ma collettivo, dato che ciò che conta è lo spazio che essi, colti nel loro insieme, riescono a creare.

In un opera del 1984, l’Edgemar Complex, sempre a Santa Monica, incentra le sua attenzione sullo spazio pubblico e sull’idea di frattura e di separazione che riveleranno spazi inediti, attribuendo importanza allo spazio cavo che diviene il centro di ogni composizione urbana, formato e deformato dagli edifici e dai loro elementi a forte reazione estetica.

Il paesaggio residuale di Gehry è il grado zero di un nuovo sentire e di una sperimentazione  che prosegue la creazione di un nuovo immaginario urbano già anticipata dai movimenti avanguardistici dei primi del Novecento e dalle correnti americane del secondo dopoguerra.
  
“Sono per un’arte che cresce senza sapere che è arte, un’arte che ha l’opportunità di avere lo zero come punto di partenza. …Sono per un’arte che prenda forma dalle linee della vita stessa, che contorca, estenda e accumuli e spinga e goccioli, che sia pesante e ruvida e dolce e stupida come la vita stessa. “
-Claes Oldenburg-

Bibliografia:
-Frampton Kenneth (2008), Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna

-Saggio Antonino (2010), Architettura e modernità. Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica, Carocci, Roma

-Frank Owen Gehry, Un'architettura di frontiera, in Domus, n° 745, 1993

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